DECRETO ENERGIA. La questione che andrebbe posta è quale strategia ci vuole per ridurre in generale il ruolo del gas e, dunque, anche delle importazioni russe e non semplicemente come sostituirle con ipotetici altri flussi africani e lasciare immutato il (ricco) mercato del gas
DI GIUSEPPE ONUFRIO, IL MANIFESTO, 24 APRILE 2022
Il governo si appresta a varare misure per dover fronteggiare le conseguenze energetiche della guerra che insanguina l’Ucraina e per poter fare a meno delle importazioni di gas dalla Russia. Con questo intento assieme a misure per sbloccare le rinnovabili (promesse dalla formazione del governo Draghi) anche un aumento della produzione da carbone (il cui prezzo è oggi cresciuto fino a 2,5 volte superiore rispetto a novembre scorso) e dell’estrazione di gas dai pozzi esistenti. Nel frattempo, abbiamo assistito al giro africano dell’ad di Eni Descalzi e del governo che, in gran parte, appare come una «grande ammuina» del gas: tempi e certezze di buona parte di quei contributi sono infatti tutti da dimostrare.
La questione che andrebbe posta è quale strategia ci vuole per ridurre in generale il ruolo del gas e, dunque, anche delle importazioni russe e non semplicemente come sostituirle con ipotetici altri flussi africani e lasciare immutato il (ricco) mercato del gas. Le dichiarazioni in Algeria sull’intenzione di sviluppare le rinnovabili e l’idrogeno verde in quel Paese (col retropensiero «così ci danno più gas») sembrano confermare l’intenzione del governo di lasciare da noi il gas al centro del sistema energetico. Invece questa fonte fossile va progressivamente ridotta: è l’unica via non solo per combattere la crisi climatica ma anche per aumentare l’indipendenza energetica ed evitare di creare altre dipendenze con fornitori esteri.
Come abbiamo già ribadito, se Cingolani avesse realizzato gli 8 GW all’anno di rinnovabili promessi, che proiettate fino al 2030 servirebbero per l’obiettivo intermedio di decarbonizzazione, nel solo primo anno di governo avremmo avuto un effetto pari alle maggiori produzioni per oltre 2 miliardi di metri cubi attese dall’espansione della produzione di gas dai pozzi esistenti in Italia. E con la differenza che gli impianti rinnovabili durerebbero per almeno 20 anni.
La proposta dell’associazione confindustriale Elettricità Futura di fare 60 GW di rinnovabili in tre anni e creare 80 mila posti di lavoro, proposta sostenuta da un fronte di associazioni Greenpeace inclusa, avrebbe dovuto generare quantomeno una interlocuzione al massimo livello per mettere in campo un «piano Marshall verde», piano che sarebbe finanziato in buona parte da privati. E invece no, l’«ammuina del gas» continua a prevalere. E sullo sblocco autorizzativo per le rinnovabili finora si è visto troppo poco, nonostante lo stesso presidente Draghi abbia ammesso che l’ostacolo non è né tecnologico né finanziario ma solo burocratico. Vedremo se il decreto segnerà davvero una svolta o farà il minimo sindacale per non disturbare troppo i padroni del vapore (e del gas).
Un aspetto del conflitto in Ucraina – potremmo quasi dire una delle «ragioni sottostanti» – riguarda la natura della forza economica della Russia e cioè il suo essere parte integrante e rilevante di un oligopolio mondiale del petrolio e del gas. Un rapporto di pochi anni fa dell’agenzia internazionale sulle fonti rinnovabili Irena analizzava come cambierà la geopolitica dell’energia dopo la transizione energetica e, tra i Paesi in maggiori difficoltà, si identificava proprio la Russia, e a ben vedere. Il primo impianto eolico industriale in quel Paese è stato realizzato da un’azienda italiana solo l’anno scorso, il primo della Danimarca è del 1987, e non pare ci sia l’interesse ad andare oltre.
Una transizione verde sarebbe perfettamente possibile anche in Russia (il cui potenziale eolico è immenso) ma scompaginerebbe l’oligarchia petrolchimica e un sistema di potere economico basato sulla gestione di «buchi e tubi», un capitalismo rentier che vive di esportazioni di petrolio e gas oltre che di carbone.
Un potere dominante nel settore energetico dei «buchi e tubi» – e con influenza notevole su tutta la politica estera del Paese – com’è noto c’è anche da noi, ed è la sua incapacità (o forse impossibilità) a fare la transizione verde che rischia di condannare il nostro Paese a perdere un’occasione storica di rilancio economico e occupazionale. Che allo stesso tempo è essenziale a combattere la crisi climatica e aumentare la nostra indipendenza energetica.
L’autore è direttore di Greenpeace Italia