Troppa finanza, poco Stato. Riconversione modello Ue
LE SCELTE DAL 1990 – GREEN E CAPITALE NON VANNO D’ACCORDO
Dall’inizio degli Anni 90 la riduzione delle emissioni di gas serra è divenuta una questione sempre più centrale per i Paesi Ue. Siccome eravamo nella fase orgasmica del neoliberismo, l’Unione ha tradotto questa sensibilità nell’unico linguaggio che riusciva a parlare, quello del mercato. Da un lato ha promosso la liberalizzazione (privatizzazione) del settore energetico, dall’elettricità al gas naturale, puntando sulla diminuzione dei prezzi per i consumatori (il che ha ovviamente contribuito ben poco a ridurre le emissioni), dall’altro ha introdotto standard per le emissioni dei veicoli più inquinanti e dato vita al Sistema per lo scambio della quote di emissione (Ets). L’idea di base è semplice: si attribuiscono quote di emissioni ai settori più inquinanti (dalle industrie energetiche alle acciaierie) per abbassare di volta in volta il tetto delle emissioni totali, confidando nell’aumento del prezzo delle emissioni come incentivo ad emettere meno.
Dopo la Conferenza sul clima di Parigi del 2015, ancor di più dopo aver fissato ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni di C02 del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, è divenuto essenziale aggredire il nemico con ogni arma a disposizione: incentivi in bolletta alle rinnovabili, tassazione del carbonio, finanziamenti in ricerca e sviluppo, incentivi all’efficienza energetica e all’acquisto di auto elettriche, sovvenzioni per tecnologie non inquinanti come l’idrogeno. La filosofia della battaglia europea contro il carbonio è quella di ribaltare come un pedalino il sistema energetico ancora fondato sulle fossili, senza intaccare però il modello di “economia sociale di mercato altamente competitiva” dell’Unione europea.
In questo schema il mercato delle emissioni è centrale. Lo ricaviamo da una riflessione dello storico e grande osservatore dell’economia contemporanea Adam Tooze che, a sua volta, riprende un recente studio di McKinsey, secondo cui i Paesi Ue dovranno investire nella decarbonizzazione 28 trilioni di euro (il 5,8% di Pil l’anno) tra il 2020 e il 2050, specialmente in settori già maturi come l’elettrificazione dei veicoli e l’energia solare. Da questo punto di vista il Next Generation Eu e le spese dei singoli governi sarebbero attualmente molto al di sotto della soglia necessaria. Niente paura: 4/5 di questi nuovi investimenti sostituiranno quelli, già in atto, nelle fossili e solo un quinto sarebbero nuovi esborsi. Ulteriore problema: molti degli investimenti da fare entro il 2030 non risponderebbero a criteri commerciali, e dunque solo un mercato del carbonio in salute sarebbe in grado di garantire profitti e scongiurare l’erogazione di 4,9 trilioni di euro di sussidi pubblici. In altre parole: il mercato Ets sarebbe un tassello fondamentale per una transizioni energetica che non gravi sui bilanci degli Stati.
Tooze è moderatamente ottimista su una transizione energetica europea senza scossoni insostenibili: solo un’area compresa tra l’1.5 e il 3% del territorio europeo dovrà essere ricoperto di pannelli e pale eoliche, mentre gli sconvolgimenti sociali saranno meno rilevanti di quelli prodotti dalle economia di guerra o dall’epocale spopolamento della campagne. Mi permetto di essere più pessimista del grande storico britannico. In primo luogo il carbonio è già soggetto a tasse (le accise sulla benzina) che in media sostentano i governi Ue per il 6% delle loro entrate fiscali.
Ammesso, e non concesso, che si possa transitare alle rinnovabili senza ulteriori aggravi per i bilanci, mancheranno comunque all’appello il 6% delle entrate: se saranno sostituite tassando in altro modo il consumo di energia, la previsione di McKinsey di bollette meno care dal 2030 sarà ancor meno credibile di quanto non lo sia già oggi. In secondo luogo l’enorme espansione del settore delle rinnovabili è un esercizio di futurologia che scosta con cura lo sguardo dai temporali che si addensano a causa dell’instabilità nella fornitura di minerali strategici per le rinnovabili, nonché della possibile reazione degli esportatori di fonti fossili. In terzo luogo la futurologia dell’ottimismo non tiene adeguatamente conto del fatto che è necessaria una decarbonizzazione a livello mondiale, non regionale. Cina e India raggiungeranno il picco delle emissioni solo più avanti, altri Paesi più poveri le aumenteranno: dunque Ue e Usa dovranno non solo ridurre fino ad azzerare le loro emissioni nette, ma compensarne l’aumento in altre parti del mondo con finanziamenti e trasferimenti di tecnologia o, in assenza di questo, raggiungere emissioni nette negative attraverso un radicale cambiamento degli stili di vita che riduca in modo drastico i consumi individuali di energia.