I prezzi della C02 alle stelle: pericoli per famiglie e imprese
“Pochi se ne sono accorti, ma presto lo faranno: il mercato europeo dell’energia elettrica oggi è caratterizzato da un tale squilibrio da rendere inevitabile un amaro rincaro della bolletta”. A lanciare l’allarme è il manager di un consorzio del Nord Italia che, in un colloquio con il Fatto Quotidiano, non nasconde la sua preoccupazione su come reagiranno imprese e consumatori nei mesi a venire, “quando si dovrà fare i conti con un aumento dei prezzi di fornitura dell’energia elettrica. Parliamo di aumenti di almeno il 10%”.
Ma qual è il problema? O meglio: qual è l’elemento che sta creando disordine in un mercato altamente regolato dove operano solitamente utilities, trader e consumatori industriali? È la corsa dei prezzi delle emissioni di anidride carbonica, che in soli 6 mesi hanno segnato un aumento del 100%, passando da 25 euro a 55 euro la tonnellata. “Il mercato delle emissioni di CO2 è letteralmente impazzito”, spiega il dirigente, e questa dinamica “avrà un impatto anche sui costi di produzione dell’elettricità. Ad oggi non c’è ancora consapevolezza del rischio rincaro in bolletta perché vigono i contratti di fornitura chiusi a fine 2020. Ma a partire da giugno, quando ci avvicineremo al periodo delle negoziazioni coi fornitori, l’allarme – prima delle imprese e poi dei consumatori – si farà sempre più forte. Fino a pochi mesi fa erano in pochi a seguirne le dinamiche, oggi trascorriamo la giornata davanti al monitor”.
Breve riassunto. Al fine di rispettare i sempre più stringenti obiettivi sulla riduzione dell’inquinamento, l’Ue nel 2005 ha creato il sistema europeo per lo scambio delle quote di emissione (EU ETS). Come spiega la stessa Commissione, EU ETS è uno strumento finalizzato a contrastare i cambiamenti climatici e dunque ridurre le emissioni di gas a effetto serra. Come funziona nel concreto? La Ue ogni anno fissa un tetto alla quantità totale di alcuni gas serra che possono essere emessi dagli impianti che rientrano nel sistema. Entro questo limite, gli impianti acquistano o ricevono quote di emissione che, se necessario, possono scambiare. Alla fine di ogni anno occorre restituire un numero di quote sufficiente a coprire interamente le loro emissioni, pena pesanti multe. Tradotto: se un impianto riduce le proprie emissioni, può mantenere le quote inutilizzate per coprire il fabbisogno futuro o venderle a un altro che ne sia a corto. Ma se il consumo supera la quota concessa, allora bisogna colmare il gap, comprando emissioni sul mercato.
E qui arriviamo al punto dolente, perché recentemente la Commissione ambiente dell’Europarlamento ha approvato l’accordo sulla legge Ue per il clima che rende legalmente vincolanti gli obiettivi del taglio del 55% delle emissioni entro il 2030 e della neutralità climatica entro il 2050. Una decisione, questa, generalmente salutata con favore. D’altronde chi non vorrebbe un mondo più pulito? Il problema è che la continua aspettativa di un calo dell’offerta di emissioni sta provocando un notevole aumento del prezzo, al punto da attirare anche il mondo della finanza, alimentando così la spirale rialzista. “Il nuovo target di riduzione delle emissioni è stato il vero catalizzatore che ha dato il là al processo di finanziarizzazione del mercato – spiega al Fatto un trader di Ginevra – Forse non tutti infatti sanno che parallelamente al mercato fisico ne esiste uno finanziario, l’Ice di Londra, dove vengono scambiati i future, ossia i contratti a termine, sulle emissioni che, a partire da fine 2020, ha assistito a un forte afflusso di liquidità da player non certo industriali”.
Insomma, a compromettere il fine certamente nobile della riduzione dell’inquinamento ci sta pensando proprio l’eccesso di zelo di cui sembra ammantarsi l’Ue nella corsa al verde. Non solo. Evidentemente non soddisfatti dei già ambiziosi target di riduzione delle emissioni, vari esponenti comunitari negli ultimi mesi hanno regolarmente alzato l’asticella degli obiettivi di riduzione di CO2, amplificando il rialzo del prezzo.
È il caso, tanto per citare l’esempio più clamoroso, delle dichiarazioni del vicepresidente della Commissione Frans Timmermans secondo cui quello della CO2 “è un mercato e dobbiamo stare molto, molto attenti a non intervenire perché questo creerebbe un prezzo non di mercato e minerebbe drasticamente la credibilità del sistema emission trading”. Un invito a nozze per la finanza, che ha aumentato l’esposizione su un mercato che sembra andare verso una sola direzione: quella al rialzo. “I fondi speculativi detengono attualmente posizioni al rialzo sui certificati – confida il trader svizzero – non c’è giorno in cui non arrivi una dichiarazione o uno studio ad alimentare il panico da carenza di offerta”.
Il riferimento è all’ultimo studio diffuso dalla società di ricerca Oeko, secondo cui il prezzo minimo delle emissioni dovrebbe già attestarsi a 50 euro per poi salire a 65 euro entro il 2030 per garantire un veloce processo di decarbonizzazione. Sia chiaro: l’intento dietro la moral suasion per alzare costantemente i prezzi delle emissioni è certamente mosso dalla crescente richiesta di decarbonizzazione che giunge anche dalla società civile. Tuttavia la foga con cui si sta cavalcando la corsa al green rischia di mettere in seria difficoltà le imprese, aggravandone i costi già peraltro sotto pressione per il rincaro delle materie prime degli ultimi 12 mesi.
Prendiamo ad esempio le acciaierie, responsabili del 20% delle emissioni globali, a cui viene garantita un’allocazione gratuita di certificati per la loro natura “energivora”: secondo alcune prime stime l’impennata dei prezzi dei certificati inciderebbe per il 10% sui prezzi. E ancora: secondo uno studio di Société Générale, l’impegno rilanciato dall’Ue a ridurre del 30% le emissioni rappresenterà un “rischio finanziario significativo”. Un timore, quello dei produttori di acciaio, che spiega perché il settore, pur vantando un eccesso di certificati in portafoglio (determinato dal calo di fatturato dal 2008 al 2020), si oppone a venderli: conosce il bisogno che ne avrà nei prossimi anni, ma così contribuisce alla spinta al rialzo dei prezzi. Il problema più pressante ce l’hanno quelle aziende i cui impianti si ritrovano in deficit di emissioni e sono dunque costrette a comprarle sul mercato (ma anche la Carbon border tax, in discussione in ambito comunitario, sta mettendo in agitazione il mondo delle imprese).
L’impetuoso aumento dei prezzi dei certificati e dell’energia elettrica, insomma, poggia su basi simili a quello delle altre materie prime come metalli, acciai e petrolio: la restrizione dell’offerta legata ai piani di contenimento delle emissioni i cui effetti inflazionistici verranno però presto sentiti dal consumatore finale.
La Ue, tuttavia, inebriata dalla ideologia della transizione ecologia, forse anche in ragione della crescente influenza dei Verdi in Germania nonché alle pressioni che giungono dal settore dell’auto, guarda a scenari di lungo termine, senza rendersi conto del muro su cui imprese e famiglie rischiano di andare a sbattere. Sarebbe un classico esempio di eterogenesi dei fini.