Carote con due gambe, zucchine sovradimensionate, arance sotto taglia, mele oblunghe, patate bitorzolute o a forma di cuore, pere storte, kiwi siamesi, melanzane a mezzaluna, albicocche puntinate, pesche con affossamenti tipo L’Urlo di Munch, peperoni a seggiolino. No, niente Ogm. Il contrario, semmai. E non chiamiamoli brutti. Semmai originali, biodiversi, anche artistici. Frutti e ortaggi strani che si discostano dagli standard di volume e forma. Commestibilissimi, buoni come gli altri; proprio come quelli molto maturi, beccati dagli uccelli o con il «marchio» di un insetto. Ma i più non gradiscono, soprattutto nella parte del mondo che ha abbondanza alimentare – magari di cattiva qualità. IN ITALIA, 36 CHILOGRAMMI DI CIBO pro capite vanno perduti ogni anno lungo tutta la catena di produzione, distribuzione e consumo. Il costo complessivo arriva all’1% del Pil nazionale, con una stima che oscilla tra i 12 e i 16 miliardi di euro. Nel caso dell’ortofrutta, a livello mondiale, la perdita di prodotto nei campi – e sugli alberi -, arriva al 21,6% in media, secondo il rapporto State of Food and Agriculture 2019 dell’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). Si distingue fra «perdita» (a monte, campi e stoccaggio) e «spreco» (a valle) lungo la catena di approvvigionamento, fino alla vendita e al consumo finale. FRA LE CAUSE DELLA PERDITA/SPRECO, si denuncia la mancata adesione al calibro, allo standard di forma, volume, perfino colore da parte di alimenti validi, scartati per le esigenze logistiche che l’industria alimentare ha imposto a suo tempo e poi interiorizzate dai consumatori. Come se non bastassero le altre spade di Damocle (ad esempio: «Un’imprevista gelata arriverà fra pochi giorni, le insalate e i broccoli in campo non possono resistere», scrive un agricoltore a un gruppo d’acquisto). Fra le numerose alee (condizioni climatiche, invasioni di parassiti, oscillazioni negli sbocchi, deperibilità) […]