L’Amazzonia brucia.
È accaduto nel 2019, accade anche quest’anno.
Con una differenza: dodici mesi fa non c’era il Covid, il mondo non era distratto e assediato da questo mostro e quindi ha reagito con forza, ha denunciato quello che accadeva.
Il presidente Bolsonaro e il Brasile sono stati messi alle strette, accusati di fare poco e niente per salvare dalle fiamme il nostro polmone.
Con tutte le polemiche e il pesante scambio di accuse tra Macron e il leader dell’estrema destra.
Ora è diverso.
Ed è ancora più grave.
Il numero di roghi è più del doppio dell’anno scorso.
Dal gennaio a fine ottobre l’Istituto di ricerca spaziale brasiliano (Inpe) ha registrato 17.326 incendi; nello stesso periodo del 2019 erano stati 7.855.
I dati raccolti dai satelliti spiegano anche che il maggior numero di focolai è divampato nel Pantanal, la zona a sud ovest della foresta, considerata il cuore della biodiversità.
Un Eden vitale per il nostro Pianeta, particolarmente umido, che quest’anno ha subito un vero record negativo: il più alto numero di incendi degli ultimi trenta anni.
L’Istituto nazionale brasiliano di ricerca spaziale parla di 2.856 roghi nel solo mese di ottobre, per altro il più piovoso.
Immaginiamo cosa può accadere nella stagione secca.
Gli attivisti sono in allarme e accusano il governo brasiliano di fare pochissimo.
Bolsonaro, tramite le agenzie del settore e il ministro dell’Ambiente, nega.
Ha mobilitato migliaia di soldati, li ha spediti in Amazzonia e sempre ai militari ha delegato i compiti di sorveglianza e di repressione nei confronti delle gang criminali, tagliaboschi illegali e cercatori d’oro ritenuti i principali responsabili dei roghi.
Per 120 giorni, nel luglio scorso, ha vietato l’uso del fuoco per distruggere sterpaglie e i residui delle coltivazioni come fanno sempre i contadini e gli agricoltori nel periodo tra le due semine.
Ma il divieto è servito a poco.
Le tribù indigene e gli attivisti denunciano la presenza massiccia di questo esercito di avventurieri, mercenari e banditi che da un anno sono tornati in massa nella foresta e si sono messi a distruggere migliaia di ettari di verde.
Lo fanno per conto degli agrari, degli allevatori, dei proprietari terrieri sempre alla ricerca di nuovi spazi dove far pascolare le mandrie o avviare nuove coltivazioni intensive di soia.
Agiscono impunemente e quando vengono sorpresi difficilmente sono arrestati o multati.
Ammende che poi non vengono pagate o sono cancellate con la complicità di chi dovrebbe esigerle.
Stando all’Inpe, da gennaio a fine ottobre in Amazzonia sono stati registrati 93.485 incendi.
E’ il 25 per cento in più di quelli segnalati nello stesso periodo del 2019.
La parte della foresta che fa parte del Brasile è proprio quella più colpita, con il 46 per cento di tutti i roghi.
Che siano dolosi, nonostante le piogge, pochi hanno dubbi.
Almeno la maggioranza.
Mariana Napolitano, capo del programma scientifico del World Wildlife Fund Brasile, lo conferma all’Ap ripresa a sua volta dal sito della Bbc.
“Dopo aver disboscato la giungla“, spiega, “i delinquenti hanno appiccato il fuoco per ripulire il materiale organico accumulato.
Alla fine del mese, con l’arrivo delle piogge, il ritmo degli incendi sembra rallentare. Ma non possiamo fare affidamento ai fattori climatici.
Quello che è accaduto in Amazzonia e Pantanal non può ripetersi.
Questa sciagura deve cessare“.
(Articolo di Daniele Mastrogiacomo , pubblicato con questo titolo il 3 novembre 2020 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)