Un problema sanitario ed economico.
Una bomba ecologica.
A questo – numeri alla mano – potrebbe portare presto il nuovo uso comune e quotidiano delle mascherine (e dei guanti in lattice, naturalmente) senza la programmazione di una filiera sostenibile.
In uno studio il Politecnico di Torino si stima che in questa Fase 2 e nei mesi a venire ci serviranno 1 miliardo di mascherine al mese.
La maggior parte di queste sarà “monouso”.
E purtroppo, come già avvenuto per gli oggetti di plastica usa e getta, a causa della mancanza di educazione molti di questi dispositivi usati per proteggerci durante la spesa vengono sovente abbandonati per terra, in natura, sui marciapiedi, fuori dai supermercati, perfino nei prati.
L’impatto di tutte queste mascherine rischia di unirsi a quello della plastica monouso che, se mal gestita, soffoca i mari: stiamo già osservando immagini di uccelli e pesci soffocati da questi nuovi prodotti, composti da tessuti, polimeri, ma anche ganci o strutture che si trasformano per gli animali in piccole reti.
Il Wwf stima che se soltanto l’1% delle mascherine finisse in natura avremmo 10 milioni di mascherine in ambiente, una bomba ecologica difficile da disinnescare.
Oltre alla necessità di una educazione civica e comportamenti corretti da parte dei cittadini, che devono gettare le mascherine usate nell’indifferenziata, come da indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, oggi però è strettamente necessario un piano, di filiera, per gestire un rifiuto che in futuro rischia di “sommergerci”, ma che potrebbe essere trasformato in “riciclabile”.
Francesco Saverio Violante, direttore della Medicina del lavoro del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, ha calcolato che serviranno nei prossimi mesi sino a 40 milioni di mascherine al giorno, che significa 300 tonnellate di rifiuti al giorno.
Ad oggi, in un caos generale tra produzione e vendita delle mascherine, la maggior parte di quelle che usiamo è prodotta per non essere riciclabile in nessun modo: finiscono direttamente nei pochi termovalorizzatori italiani che stanno già sopportando maggiori carichi di rifiuti legati alla pandemia da Covid-19.
“E’ una gestione assolutamente non sostenibile” spiega a Repubblica Claudia Brunori di Enea, responsabile per l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile di ambiente, uso efficiente delle risorse e sostenibilità dei sistemi produttivi.
Insieme ai colleghi, Brunori sta dialogando con ministeri e privati per arrivare a un “piano per una filiera sostenibile dei dispositivi di protezione“.
E’ necessario infatti muoversi in due direzioni.
“Una è quella delle mascherine usate dal personale sanitario.
Ad oggi, per scongiurare contagi, le mascherine vengono per legge trattate e sanificate negli ospedali dopo l’uso e solo allora vengono raccolte e portate agli inceneritori.
Questa è una operazione molto conservativa che ci obbliga a buttare tutto, senza riciclare nulla. Non è affatto efficiente in termini di economia circolare, di ambiente e ha costi alti che diventeranno insostenibili.
I dispositivi ad uso medico sono composti da materiale di valore che dobbiamo pensare di poter recuperare e, dopo averlo processato, riutilizzare. Stiamo studiando dei progetti pilota per provare a farlo“, spiega Brunori.
La seconda direzione è quella delle mascherine a uso civile, che utilizziamo tutti noi.
Una volta buttate nell’indifferenziata finiscono negli inceneritori italiani, la maggior parte del Nord, che oggi sono già a livello.
Con le previsioni di una crisi duratura e l’obbligo di protezione che potrebbe proseguire per molti mesi, questi rifiuti rischiano di andare a intasare i sistemi di smaltimento.
“Ma qui – dice ancora Brunori – a differenza di strette normative come per quelle che usano i sanitari, possiamo ancora intervenire“.
La responsabile Enea spiega infatti che è necessario ripensare subito “l’intera filiera.
Oggi in Italia stiamo importando la maggior parte delle mascherine.
Da noi abbiamo pochissimi macchinari appositi per produrre FFP2 e quelle che vengono realizzate seguono regole prive di sostenibilità.
Essendo realizzate in più polimeri e più materiali, riciclare è praticamente impossibile.
Quindi le usiamo e le buttiamo, esattamente come per certi monouso di plastica“.
Da qui nasce la necessità di ripensare l’intera filiera italiana in modo che si possa ottenere un prodotto adatto all’economia circolare: “Mascherine che siano fatte con un unico polimero e materiali che possano poi essere riciclati. Inoltre serve la tracciabilità“.
Le idee allo studio sono tante, “pensiamo a dei dispositivi con il solo filtro staccabile e lavabile, riciclabile.
Ma anche appunto a mascherine che contengano un solo polimero.
Serve per esempio una produzione di polipropilene da dedicare solo a questo“.
Quello che è necessario per non rischiare di rimanere ingolfati e ritrovarci con milioni di mascherine da smaltire “è un processo produttivo condiviso” e una maggiore attenzione all’aspetto ambientale.
Per esempio “si sta pensando all’uso di contenitori appositi per le mascherine da distribuire nelle città, magari davanti alle farmacie o i supermercati: raccolte e sanificate, i componenti di quei prodotti potrebbero essere riutilizzati“, spiega Brunori.
In attesa di un ripensamento generale della filiera legata alle mascherine, oggi già al centro di un business che coinvolge diversi Paesi del mondo, le associazioni ambientaliste da Legambiente al Wwf stanno già lanciando ripetuti appelli per un uso responsabile di questi dispositivi.
Le immagini che arrivano dal Canada di uccellini soffocati e impigliati della mascherina, sono le prime terribili cartoline di cosa potrebbe accadere in futuro.
Ecco perché, sia a livello ecologico che sanitario, dobbiamo sempre rispettare una regola obbligatoria: mai gettarle per strada.
(Articolo di Giacomo Talignani, pubblicato con questo titolo il 7 maggio 2020 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)