«Forse è giunto il momento di pensare a una forma di “salario universale” [salario universal] che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti». Lo ha scritto nel giorno di pasqua Papa Francesco in una lettera ai «movimenti popolari», definiti «veri poeti sociali», quelli che hanno una «cultura», una «metodologia» ed esercitano la «capacità di sentire come proprio il dolore dell’altro». I destinatari del «salario» potrebbero essere i lavoratori informali come «venditori ambulanti, raccoglitori, giostrai, piccoli contadini, muratori, sarti, quanti svolgono compiti assistenziali». Questo «salario universale» è condizionato all’essere umano come «lavoratore», la cui condizione priva di diritti è doppiamente penalizzata dalla crisi indotta dal Covid 19. Una misura concepita in funzione di una divisione capitalistica del lavoro inserita nella triade che caratterizza, per Francesco, la lotta dei «movimenti popolari»: «tierra, techo y trabajo», terra – e i suoi frutti, come il cibo – casa e lavoro. La dottrina scarta dal classico avviso di San Paolo che, nella Lettera ai Tessalonicesi (3.7-12), ha inteso la disoccupazione come una colpa dell’individuo: «Chi non vuole lavorare – scrisse – non deve neppure mangiare». Francesco riconosce che il lavoratore ha subito un torto, non ha diritti e in più non lavora. Il lavoro, senza aggettivi, resta un diritto condizionato e non è inteso come una «libera attività», impossibile da svolgere in una società capitalistica dove il lavoro resta una merce. Francesco sembra indicare una misura di «reddito minimo garantito» più che un «reddito universale di base». Di solito queste misure sono confuse: la prima sarebbe riconosciuta fino al permanere nello stato di bisogno, è collegata ad attività obbligatorie come lavori pubblici, formazione e mobilità obbligatori (come il cosiddetto «reddito […]