Potrebbero essere una delle leve in grado di far ripartire l’economia italiana, insieme alle città d’arte.
Invece hanno bilanci disastrosi con entrate quasi zero.
Sono disorganizzati, spesso senza presidenti da decenni.
Hanno debiti storici e procedure burocratiche elefantiache che li appesantiscono.
Molti sono privi dei piani di sviluppo previsti dalla legge di 26 anni fa.
Sono i 23 parchi nazionali italiani che la Corte dei conti ha passato sotto la lente di ingrandimento nella prima ricognizione finanziaria unificata per il triennio 2014-2016.
Ne è uscito un quadro disomogeneo, nel quale realtà virtuose come il parco del Vesuvio o delle Cinque Terre convivono con veri e propri incubi finanziari, come i parchi dell’Aspromonte, del Cilento, dei Monti Sibillini e del Pollino.
Complessivamente, i 23 enti parco nel 2014 hanno generato utili per circa 8,3 milioni, saliti nel 2015 a 8,8, ma crollati verticalmente nel 2016, con una perdita di ben 2,3 milioni.
Una débacle dovuta alla gestione economica, tanto che alcuni «presentano un deficit strutturale in tutto il periodo di riferimento, con conseguente progressivo assottigliarsi del patrimonio netto», scrive la Corte.
Anche per quanto riguarda i costi del personale i numeri non sono certo positivi, questi infatti incidono per oltre il 30% sulla spesa corrente.
Ma anche qui «con profili di elevata disomogeneità».
Si passa infatti dal Parco nazionale dell’Arcipelago di La Maddalena, dove la voce per il personale assorbe il 76,3% delle spese, a enti nei quali i lavoratori pesano per meno del 4%, come quello delle Cinque Terre.
Quest’ultimo, dopo l’indagine giudiziaria del 2010, che aveva portato all’arresto del Presidente ed alla decadenza del Consiglio direttivo e della Giunta esecutiva, per appropriazione di fondi europei e abusi edilizi), grazie all’azione del commissario poi divenuto Presidente, è diventato il benchmark dei parchi nazionali italiani.
Da dove arrivano i soldi
Circa le fonti di finanziamento, 21 enti parco su 23 dipendono quasi esclusivamente dai trasferimenti statali, che rappresentano oltre il 90% delle entrate complessive e vanno a coprire spese come personale e funzionamento.
Il Parco delle Murge, per esempio, su i 2.217.971 euro di entrate correnti dichiarate nel 2016, ne ha ricevuti dallo Stato ben 2.207.183 (il 99,53%).
Quello del Cilento e Vallo di Diano, su 4,48 milioni da Roma ne ha avuti 4,40 (98%).
E si potrebbe continuare col Circeo (99,55%) o col parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (94,9%).
Nella colonna dei virtuosi vanno il solito Parco delle Cinque Terre (su 15,6 milioni di entrate, solo 2,6 provengono dallo Stato, il 16,5%) e del Vesuvio (su 7,5 milioni di entrate nel 2016, dal governo centrale sono arrivati 1,5 milioni, il 20%).
Le entrate proprie, cioè la vendita di beni e servizi, che per un parco dovrebbe rappresentare il core business, sono invece inchiodate al 3% di media, dimostrazione che se l’Italia intende rilanciarsi vendendo le proprie bellezze naturali, è sulla strada più sbagliata.
E così, l’alta Murgia è riuscita a incassare dalle proprie attività nel 2016 ben 771 euro, lo 0,03% delle entrate («Si tratta di vendita di libri e mappe in prevalenza, il che implica una assoluta assenza di politiche gestionali di autofinanziamento», scrivono i giudici); quello dell’Aspromonte 7.879 euro (0,26%); Il Cilento e Vallo di Diano ben 954 euro (0,02%), fino ad arrivare al record del Parco del Circeo che ha incassato zero euro.
Anche qui, il parco del Vesuvio – con 5,9 milioni di entrate proprie su 7,5 di entrate correnti (79%) – e quello delle Cinque Terre (13 milioni su 15 totali, 83%), guidano la classifica.
Gli adempimenti dimenticati
Fonte di particolare preoccupazione, per i giudici, è poi il non rispetto dei dettami previsti dalla legge quadro 394 del 1991, la quale ha attribuito agli enti ampi poteri, ma ha anche previsto particolari prescrizioni in materia di gestione della tutela del territorio e del paesaggio, conservazione e gestione della biodiversità, il sostegno alle attività economiche tradizionali ed al turismo, modalità di fruizione del territorio e l’educazione ambientale.
La norma prevede, quali strumenti di programmazione: il Piano per il parco; il Regolamento del parco; il Piano pluriennale economico e sociale, documenti che a distanza di 26 anni spesso latitano.
E non si tratta di mancanze lievi.
Il Piano per il parco disciplina, per esempio, «l’uso del territorio mediante un’articolazione in aree caratterizzate da differenti gradi di protezione e fissa gli indirizzi e i criteri per gli interventi sulla flora, sulla fauna e sull’ambiente naturale in genere; inoltre ha effetto di dichiarazione di pubblico interesse e di urgenza e indifferibilità per gli interventi in esso previsti e sostituisce ad ogni livello i piani paesistici, i piani territoriali o urbanistici e ogni altro strumento di pianificazione».
È il Pgt di un parco nazionale.
Così come il Regolamento del parco «disciplina l’esercizio delle attività consentite e da valorizzare, stabilisce le attività e le opere vietate per non compromettere la salvaguardia degli ambienti naturali e del paesaggio».
Infine, non meno importante, il Piano pluriennale economico e sociale «ha l’intento di coniugare le esigenze di conservazione del territorio con quelle dellosviluppo sostenibile e promuove le iniziative di natura imprenditoriale e sociale della collettività locale».
Il business plan, insomma.
Per i giudici in molti dei 23 Enti, questi documenti o sono ancora in via di approvazione, o non ci siamo proprio: «Come già rilevato nelle precedenti relazioni, tali strumenti di programmazione e di gestione del territorio presentano un elevato grado di complessità, sia nella procedura di adozione che nei contenuti, tanto che, ad oltre 26 anni dall’entrata in vigore della legge quadro, molti Enti parco ne sono ancora sprovvisti».
Un parco che non funziona
Un esempio del perché un parco non funzioni è offerto dal Parco Nazionale dell’Appennino Lucano, Val D’Agri, Lagonegrese (riportiamo questo, ma avremmo potuto analizzare il bilancio di molti altri enti italiani, con il medesimo quadro…).
Istituito nel 2007, il parco copre il territorio di 29 comuni della provincia di Potenza ed ha una superficie di 68.931 ettari. La sede è a Marsico Nuovo (Pz).
Le procedure per l’adozione degli strumenti di programmazione (Piano e Regolamento) sono tuttora in corso.
Per la redazione dei due documenti, che dovrebbe essere la materia quotidiana del personale assunto dal parco, l’ente nel 2013 ha fatto ricorso a svariate consulenze di società private: una da 661.157 euro, cui ne è seguita una seconda da 79.200 euro per «la redazione dello studio di valutazione ambientale strategica (Vas)», nonché una terza «per le attività complementari necessarie alla armonizzazione procedurale tra la procedura Vas e la pianificazione generale già oggetto del precedente appalto, per un importo di 23mila euro».
Una consulenza per armonizzare le consulenze…
Non contenti, i vertici del parco il 18 novembre 2016 commissionano un nuovo appalto per la redazione del programma economico e sociale (Ppes), per altri 95.160 euro.
A fronte di ciò, il parco lucano spende per i propri 17 dipendenti una cifra «in costante aumento nel triennio in esame; infatti nel 2014 ammonta a 607.566 euro (+3,7%), nel 2015 a 836.158 euro (+37,62%) per assestarsi nel 2016 sul valore di 861.542 euro (+3%).
Inoltre, sebbene l’Ente abbia comunicato in sede istruttoria ai giudici «di non aver conferito incarichi di studio e consulenza», dal sito istituzionale, risulta che ha conferito a un esterno i seguenti incarichi: addetto-stampa – dal 10 ottobre 2014 per mesi 8; compenso di 13.300 euro, poi prorogato fino al 15 giugno 2016 con ulteriore compenso di 19.950 euro; portavoce dell’organo di vertice; compenso complessivo di 4.293 euro.
Dal punto di vista gestionale, c’è poco da stare allegri: la gestione in conto capitale chiude nei tre esercizi sempre in deficit (-58.780 euro nel 2014, -3.569.925 euro nel 2015 e -229.558 euro nel 2016) «con un aumento esponenziale nel 2015 conseguente soprattutto all’effettuazione di spese per acquisizione di beni durevoli e opere immobiliari a fronte di entrate in conto capitale del tutto assenti».
Le uscite correnti aumentano nel corso dei tre esercizi assestandosi nel 2016 a 4.611.720 euro (+4,7% rispetto al 2015), «con un incremento rispetto al 2014 del 51,8% dovuto principalmente alla spesa per l’acquisto di beni di consumo e servizi che incide in misura superiore al 70% sul totale delle uscite correnti».
Le spese per prestazioni istituzionali – che sono quelle proprie dell’attività di un parco, come Indennizzi per danni fauna, censimenti della fauna stessa, partecipazione a progetti scientifici – invece registrano una diminuzione del 26,2% nel 2014 (140.694 euro), aumentano del 49,3% nel 2015 (209.986 euro) per poi diminuire di nuovo nella misura del 32% nel 2016 (142.800 euro).
L’incarico di Direttore, infine, nei tre anni pesi in esame, è stato espletato da un soggetto esterno a seguito di delibere più volte reiterate che hanno destato seri dubbi da parte della Corte.
Infine, se il parco può vantare entrate in crescita sia nel 2014 sia nel 2015 (326.631 euro nel 2014 e a 3.684.342 euro nel 2015), lo si deve in parte allo Stato che lo ha finanziato per 1,9 milioni, ma, soprattutto ai trasferimenti da parte della Regione Basilicata che ha fatto ricorso ai fondi comunitari FESR-PSR 2007/2013 (366.564 nel 2014 e 3.811.853 nel 2015) e di altri enti pubblici territoriali (1.190.000 euro nel 2014 e 2.079.746 nel 2015).
Da solo, il parco ha sviluppato introiti per ben 6.248 euro, lo 0,1 delle entrate totali.
Non certo una performance memorabile.
(Articolo di Andrea Sparaciari, pubblicato con questo titolo il 13 agosto 2018 sul sito “Business Insider”)