L’Italia, come mostrano i recentissimi dati forniti dal CNR sta già patendo sotto i nostri occhi gli effetti dei cambiamenti climatici.
La primavera 2017, di cui stiamo sperimentando la coda, è per il nostro Paese «la seconda più calda dal 1800», superata solo da quella del 2007.
Per alcuni potrebbe trattarsi di un piacevole tepore (+1,9°C rispetto alla media di riferimento), ma per il Paese e la sua economia nel complesso è una situazione già molto difficile.
La pioggia scarseggia, condizionando l’agricoltura come l’industria e la produzione di energia elettrica ormai da mesi: da dicembre 2016 «si registrano continuamente anomalie negative di precipitazioni», spiegano dal CNR.
Nonostante tutto, però, le criticità vissute dal nostro Paese a causa dei cambiamenti climatici impallidiscono rispetto a quanto sta avvenendo in ambienti più estremi.
Come ormai sappiamo grazie ai dati Noaa, ad esempio, nel 2016 della Groenlandia lo scioglimento dei ghiacci artici non solo è continuato, ma è accelerato (e continua a farlo dal 2002).
Con effetti che, purtroppo, si estendono ben oltre all’Artico.
A documentare i potenziali effetti di un trend che minaccia di innescare un’esplosiva catena di eventi è da ultimo un team internazionale di ricercatori, che ha appena pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Pnas la ricerca Consequences of rapid ice sheet melting on the Sahelian population vulnerability.
Secondo i modelli climatici aggiornati dai ricercatori con gli ultimi dati disponibili, «fra il 2020 e il 2070 decine o addirittura centinaia di milioni di persone potrebbero essere costrette a lasciare la fascia del Sahel – sintetizzano con efficacia su Le Scienze – a causa delle gravi e persistenti siccità provocate da un fenomeno che si sta manifestando a oltre 10.000 chilometri di distanza: la fusione dei ghiacciai della Groenlandia».
In altre parole, mentre l’Ipcc finora stimava nello stesso periodo un innalzamento nei livelli del mare compreso tra gli 0,52 e gli 0,98 metri, la nuova ricerca sposta molto più in alto l’asticella del pericolo, arrivando fino a +3 metri nel periodo considerato.
«Al di là del già significativo impatto sulle aree costiere di tutto il mondo dell’innalzamento della linea di costa – aggiungono dall’edizione italiana di Scientific american – il massiccio riversamento di acqua dolce fredda nell’oceano Atlantico settentrionale avrebbe una conseguenza ancora più temibile: l’alterazione delle correnti marine e, di conseguenza, di quelle atmosferiche».
L’effetto domino inizia da qui, con alterazioni che «comporterebbero un indebolimento più o meno marcato delle piogge monsoniche sull’Africa occidentale» e conseguenti fenomeni di «megasiccità nelle regioni del Sahel».
Una regione già affamata.
Le popolazioni colpite non avrebbero altra scelta che migrare, per non morire di fame.
E dove si riverserebbero?
Del doman non v’è certezza, ma non occorrono doti divinatorie per osservare i dati messi a disposizione dall’Unhcr (l’Agenzia Onu per i rifugiati) sugli sbarchi dei migranti che hanno raggiunto le coste italiane dal 1 gennaio al 7 giugno 2017: su 61.165 sbarchi (a fronte dei 181.436 del 2016), il 17,1% dei migranti è arrivato dalla Nigeria, il 6% dal Mali, il 5,2% dal Senegal, il 3,8% dall’Eritrea, il 3,5% dal Sudan, il 3,2% dalla Somalia, lo 0,9% dall’Etiopia: in altre parole, per il 39,7% i migranti e rifugiati sbarcati quest’anno in Italia sono cittadini di uno degli stati che compongono il Sahel.
Qui il cerchio dei cambiamenti climatici si chiude, sottolineando una volta di più – fosse ancora necessario – l’importanza per l’Italia di affrontare (per tempo e con impegno) ciò che non possiamo più far finta di non vedere.
(Articolo di Luca Aterini, pubblicato con questo titolo il 9 giugno 2017 sul sito online “greenreport.it”)