Pale d’altare (spesso straordinariamente importanti), sculture, oreficerie, arredi. Mentre il ministro Dario Franceschini farneticava di «caschi blu della cultura», non succedeva assolutamente nulla. E dopo la terribile scossa del 30 ottobre, ancora nulla: fino a che i sindaci non hanno invocato a gran voce il diritto di fare da soli. È quel che il commissario Vasco Errani ha concesso: tornando indietro di oltre un secolo, è passata l’idea che non ci sia bisogno di tecnici per gestire le emergenze del patrimonio culturale. Come far operare al sindaco un ferito grave, perché l’ambulanza, da giorni, non arriva. E così oggi ammiriamo le ruspe sui cumuli degli affreschi, e vediamo che sono i carabinieri (peraltro eroici, come sempre) a portar via le opere mutile dalle chiese in rovina. Così: adagiandole sui prati bagnati, senza fare una fotografia, senza mezzi speciali, senza alcun protocollo. Così, come se fossimo non l’Italia – patria della più avanzata tutela del patrimonio –, ma l’ultimo fra i più barbari dei paesi. Ma com’è possibile che siamo arrivati a questo punto di non ritorno? È stata una scelta precisa, perseguita con tenacia. Come ha detto qualche giorno fa Maria Elena Boschi – trovandosi in perfetto accordo con Matteo Salvini, sulle poltrone di Porta a Porta –: «Abbiamo fatto una riforma della pubblica amministrazione per ridurre le complicazioni sul territorio. Va benissimo darsi altre sfide, io sono d’accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d’accordo, lavoriamoci dal giorno dopo: disponibilissimi a discutere di tutto». Una volta tanto la Boschi ha detto la verità: la riforma Franceschini (una riforma concepita in odio alle soprintendenze, su mandato di un presidente del Consiglio che ha scritto che «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia») ha dato il colpo di grazia alla tutela. Le soprintendenze […]