Tomaso Montanari «Vogliamo una democrazia che decide», sostiene il fronte del Sì. «Anche noi! Ma decidere non vuol dire comandare, o dominare: avete costruito una dittatura della maggioranza, un sistema in cui chi vince prende tutto. Un sistema in cui non esistono più garanti terzi», ribattiamo dal fronte del No. È stato questo il leitmotiv del mio confronto con Luciano Violante, arbitrato venerdì scorso da Enrico Mentana. Un punto cruciale del dibattito ha riguardato l’elezione del presidente della Repubblica. Come il vecchio, il nuovo articolo 83 prevede che: «Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri». Solo che – se vincesse il Sì – il Parlamento sarebbe così composto: 630 membri della Camera (come ora: si sono ben guardati dal limitarne il numero, alla faccia della retorica del risparmio!), 95 senatori nominati dai consigli regionali (iddio sa come), fino a 5 senatori nominati dal presidente della Repubblica (durano sette anni, e dunque il loro numero al momento del voto è imprevedibile: dipende quando saranno stati nominati) e i senatori di diritto e a vita in quanto ex presidenti della Repubblica. Immaginiamo dunque l’elezione del successore di Mattarella, e consideriamo il corpo elettorale più ampio possibile (augurando lunghissima vita a Giorgio Napolitano): 630+95+5+2, cioè 732 elettori. Dobbiamo subito dire che, a legislazione attuale (dunque ad Italicum vigente), il partito di maggioranza avrà (per legge) 340 seggi alla Camera, e, diciamo, una maggioranza di 60 senatori (qua il dato è, per forza di cose, empirico: ma è una ragionevole proiezione del peso attuale del Pd): dunque un pacchetto di 400 voti. Ebbene, nei primi tre scrutini (come ora) per eleggere il Capo dello Stato ci vorranno i due terzi: 488. Il partito di maggioranza dovrebbe trovarne 88: il che implica un’alleanza politica di una certa […]