François Burkhardt MANTOVA. Dalle certezze del mondo moderno, alle incertezze di quello postmoderno, François Burkhardt racconta quarant’anni di esperienze di architetto, di storico e critico, di direttore di grandi istituzioni culturali (dalla Kunsthaus di Amburgo al Centre Pompidou di Parigi) e di riviste (Domus), di professore (a Lione, a Vienna, a Siena), e poi di curatore. Ottant’anni, nascosti sotto un vistoso ciuffo (è nato a Winterthur, in Svizzera), questa mattina presenta al Festivaletteratura un volume che s’intitola proprio Dalla certezza alle incertezze e che la Corraini Edizioni ha affidato alle geniali cure grafiche di Italo Lupi (pagg. 270, euro 32). È un bilancio, ma soprattutto una riflessione accorata sullo stato dell’architettura, su quanto la disciplina abbia smarrito la sua funzione sociale, a prescindere da modernità e postmodernità. Pur ispirandosi al pensiero di Jean-François Lyotard, Burkhardt lamenta la dissipazione dei precetti che, da Alvar Aalto in poi, hanno disposto l’architettura al servizio dei bisogni psicologici e materiali degli esseri umani. “Nel 1960 andai in Finlandia per vedere gli edifici di Aalto“, racconta Burkhardt, “e due anni dopo avrei potuto lavorare nel suo studio, ma dovetti rinunciare perché avevo già un impegno preso. Rimasi folgorato dal suo Sanatorio di Paimio, dai lavabi non rumorosi ai pannelli radianti a soffitto che riscaldavano solo i piedi del letto. Ecco cosa intendo per architettura che soddisfa bisogni“. È un’attitudine che non esiste più? “Vedo prevalere nell’architettura di cui più si parla un concetto libertino del costruire, come se fosse un gioco o uno spettacolo. Un fare per sé e non per chi userà gli edifici. Godiamo di una grande libertà compositiva rispetto ai rigidi precetti del razionalismo, ma la libertà è usata male“. Nomi? “Daniel Libeskind. È intelligentissimo, ma le sue architetture mi fanno tremare. Nel progettare musei, per esempio, manca il più elementare […]