Tra il referendum fallito, lo sversamento di petrolio a Genova e l’assalto contro l’acqua pubblica, possiamo dire che non c’è da stare allegri sullo stato dell’ambiente e dell’ambientalismo in Italia. Non che questa sia una notizia: l’ambientalismo è sempre stato piuttosto debole e minoritario nel Paese. Tuttavia, la difficoltà di praticare quella che è stata definita una single issue politics, ossia un’opzione politica concentrata su una singola questione, come ad esempio quella ecologica, non è necessariamente una grana, ma al contrario può rivelarsi una opportunità. Coniugare giustizia sociale e giustizia ambientale, politicizzare l’ambiente e i suoi saperi, andare oltre la narrativa della tecnologia buona che risolve i problemi e del capitalismo verde sono le fondamenta di un ambientalismo «altro» che mischia la questione ecologica e quella sociale, nella consapevolezza che, per dirla con Naomi Klein, solo una rivoluzione ci potrà salvare. Hobby e pregiudizi Qualche settimana fa Berta Caceres è stata assassinata in Honduras. La maggior parte della stampa italiana non ci ha fatto troppo caso, meno che mai il governo. Per la verità non abbiamo avuto neppure grandi manifestazioni di piazza. L’omicidio di Caceres non è una eccezione: dal 2002 si conta che quasi mille attivisti sono stati assassinati. Le biografie di attiviste e attivisti come Berta provano che l’ambientalismo non è affatto un hobby per signore benestanti e appassionati delle gite fuori porta. Studiosi come Rob Nixon, Joan Martinez Alier e Ramachandra Guha hanno dimostrato che il paradigma sociologico secondo il quale solo i ricchi possono permettersi il lusso di essere «ambientalisti» è in realtà una comoda retorica che serve a nascondere e minare il potenziale rivoluzionario delle coalizioni rosso-verdi. L’idea che solo chi ha la pancia piena possa occuparsi del superfluo implica che l’ambiente sia «il superfluo», l’altrove dove spendere il weekend o le vacanze. Invece, […]