Dopo due settimane di negoziati, la Cop 21 ha concluso i suoi lavori.
Il risultato è un testo che fa discutere esperti e associazioni.
Alle 19:32 di sabato, il presidente della Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, Laurent Fabius, rivolgendosi all’ultima assemblea plenaria ha domandato se ci fossero ancora obiezioni.
Pochi secondo dopo, ha picchiato il martello di legno, decretando l’adozione definitiva dell’Accordo di Parigi e, con essa, la fine della Cop 21.
Cosa prevede l’Accordo di Parigi
Il testo propone di limitare la crescita della temperatura media globale “ben al di sotto dei 2 gradi centigradi”, e di “proseguire gli sforzi per tentare di non superare gli 1,5 gradi”. Non è stata accolta, dunque, la richiesta dei paesi più vulnerabili e delle ong, che chiedevano che gli 1,5 gradi fossero imposti come soglia massima. Per lo meno, però, la menzione è inserita nell’accordo, il che rappresenta un indubbio successo.
Da sinistra a destra, il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, il primo ministro Manuel Valls e il presidente François Hollande alla Cop 21 di Parigi ©Pascal Le Segretain/Getty Images)
Non tutti, però, sono usciti da Le Bourget col sorriso stampato sulle labbra: “L’azione contro i cambiamenti climatici – ha spiegato Krishneil Narayan, coordinatrice dell’associazione Climate Action Network per le Isole del Pacifico – per noi è una questione di sopravvivenza. Per cui, come possiamo accettare un compromesso? L’accordo di Parigi non riflette tutte le nostre richieste. Ma non lo abbiamo mai inteso come l’ultimo gradino: si tratta di un processo che deve continuare la propria strada”.
“La ruota dell’azione sul clima – ha dichiarato Kumi Naidoo, direttore di Greenpeace International – gira lentamente. Ma a Parigi, almeno, ha girato. Molti aspetti nel testo sono stati annacquati, ma credo che nei board delle compagnie del carbone e nei palazzi dei paesi esportatori di petrolio ci sia preoccupazione in questo momento”.
Cosa si farà, in concreto, per raggiungere gli obiettivi
Il secondo punto più “caldo” dell’accordo riguarda, sostanzialmente, i mezzi concreti che saranno utilizzati per raggiungere l’obiettivo dichiarato.
Come noto, gli Indc, ovvero le promesse che sono state avanzate da numerosi governi (ma non da tutti) prima dell’avvio della Cop 21, in termini di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, non sono infatti sufficienti.
Esse consentiranno, secondo quanto ammesso dallo stesso governo francese, di arrivare a +2,7 gradi.
Il che significherebbe andare incontro ad una catastrofe.
“I governi dovranno rafforzare i loro impegni se vogliono restare sotto ai 2 gradi”, ha spiegato Célia Gautier, della Réseau Action Climat.
Per questo le associazioni ambientaliste hanno insistito molto affinché fosse inserito nel testo il concetto di “decarbonizzazione” (che non è presente, per via del veto imposto da Arabia Saudita e India) e che fosse imposta una revisione (migliorativa) degli Indc al più presto.
Ebbene, alla fine si è deciso che la prima revisione sarà molto lontana nel tempo: nel 2025.
Successivamente, essa sarà effettuata ogni cinque anni.
Secondo quanto riferito al quotidiano The Guardian dal climatologo americano James Hansen, ciò rende l’accordo “una truffa. È assurdo dire: poniamo l’asticella a 2 gradi e poi cercheremo di fare un po’ meglio ogni cinque anni. Si tratta di parole prive di significato: non c’è alcuna azione, sono solo promesse”.
Dello stesso avviso Juillard, di Greenpeace France, per il quale il processo “è troppo lento e troppo poco ambizioso”.
Fondi per almeno 100 miliardi di dollari all’anno
Per quanto riguarda invece i costi, il testo riprende la cifra indicata nel 2009 a Copenaghen: “Serviranno 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020” per aiutare i paesi in via di sviluppo a contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici, nonché a fronteggiare perdite e danni.
Ma aggiunge – in modo molto incoraggiante – che tale cifra è “un limite minimo”, sotto al quale non si può dunque scendere.
E dopo il 2020?
“Un nuovo obiettivo – si legge nel testo – sarà fissato nel 2025”.
Anche in questo caso, la tempistica non è andata giù alle ong.
“Per il post-2025 c’è molta poca chiarezza, benché si sappia che l’impatto (dei cambiamenti climatici,ndr) sarà crescente”.
Altro punto dolente, l’Accordo di Parigi non fa alcun riferimento alle emissioni legate al trasporto aereo e marittimo, il che rappresenta un grande problema, dal momento che i due comparti, assieme, arriveranno presto a rappresentare il 10 per cento delle emissioni mondiali di gas ad effetto serra.
Il tema è stato oggetto di aspre polemiche negli ultimi giorni della conferenza.
L’Accordo di Parigi, di fatto, non è (del tutto) vincolante
Infine, la questione della forma giuridica: l’accordo è vincolante per chi lo sottoscrive?
Secondo quanto spiegato al quotidiano Libération da Yannick Jadot, eurodeputato dei Verdi francesi, “si instaura un nuovo regime di governance, che certo è poco stringente dal punto di vista del diritto, degli obblighi. Nessuno sarà realmente obbligato a fare nulla. Ma si riconosce il ruolo della società civile, che potrà porre sotto pressione gli stati affinché agiscano”.
Non esistono infatti sanzioni per chi dovesse disattendere quanto firmato.
Né, tantomeno, è stato istituto un tribunale (o una commissione, o un altro organismo) incaricato di verificare che le varie nazioni agiscano secondo quanto annunciato in Francia.
Per cui, di fatto, la reale applicazione dei termini dell’accordo resta legata alla volontà politica di ciascun paese.
Certo, alcuni parlamenti nazionali si sono pronunciati, approvando ad esempio gli Indc, ed a loro effettivamente i governi di quei paesi dovranno rispondere.
Il che, sebbene in modo indiretto, fornisce all’Accordo di Parigi un valore giuridico più stringente.
Giudizi discordanti dalle associazioni
Per tutte queste ragioni, il giudizio della società civile è dunque composito.
Per Mohamed Adow, di Christian Aid, “è la prima volta nella storia che il mondo intero si impegna a ridurre le emissioni di gas ad effetto serra. Sebbene ciascun paese procederà con una velocità diverse, la transizione verso un mondo a basse emissioni di CO2 è ora inevitabile”.
Un punto di vista condiviso da Michael Brune, direttore del Sierra Club, secondo il quale “Parigi è una svolta per l’umanità”.
Migliaia di manifestanti sotto alla Tour Eiffel hanno protestato sabato contro l’accordo raggiunto alla Cop 21
Meno entusiasta Bill McKibben, fondatore di 350.org: “I governi sembrano aver riconosciuto che l’era delle fonti fossili deve essere terminata presto. Ma la forza delle lobby del petrolio e del carbone si riflette nel testo, che ritarda troppo i tempi della transizione. La velocità, adesso, è il problema centrale. E gli attivisti devono moltiplicare gli sforzi per indebolire l’industria fossile”.
Allo stesso modo, Helen Szoke, direttrice di Oxfam, ha spiegato che “è stata avanzata solo una vaga promessa. L’accordo non impone ai paesi un taglio delle emissioni sufficientemente rapido da evitare la catastrofe. Ciò, tra l’altro, farà impennare i costi dell’adattamento in futuro”.
Appuntamento a New York, nel 2016, per la firma
In termini tecnici, l’Accordo di Parigi sarà depositato presso le Nazioni Unite a New York, il 22 aprile 2016.
A partire da quel momento, verrà concesso un anno di tempo ai governi per ratificarlo: esso entrerà in vigore quando a farlo saranno stati almeno 55 paesi, che rappresentino non meno del 55 per cento delle emissioni globali di CO2.
(Articolo di Andrea Barolini, pubblicato con questo titolo oggi 13 dicembre 2015 sul sito www.lifegate.it)