Terra Viva, il manifesto che rompe il recinto

 

L’articolo di Guido Viale, pubblicato con questo titolo il 12 maggio 2015 su “Il Manifesto”, che illustra come il manifesto “Terra Viva” si sviluppi su tutt’altri temi di quelli plateali dell’Expo: VAS ne condivide pienamente i contenuti.

 Immagine.Manifesto Terra Viva.A

Cro­naca e com­menti sull’inaugurazione di Expo e gli scon­tri del 1° mag­gio hanno offu­scato non solo la par­te­ci­pa­zione di massa al May­day, ma anche il lato grot­te­sco di una mani­fe­sta­zione svol­tasi il 2 mag­gio, alla pre­senza di Mau­ri­zio Mar­tina, mini­stro dell’Expo e, in subor­dine, dell’agricoltura, alla cascina Triulza (il green washing dell’Expo) con la pre­sen­ta­zione di “Terra Viva”: un mani­fe­sto messo a punto dall’associazione Nav­da­nya di Van­dana Shiva, cui hanno col­la­bo­rato, tra gli altri, anche Andrea Bara­nes e Piero Bevilacqua. [vedi http://www.vasonlus.it/?p=14254

Per­ché grot­te­sco? 

Quel mani­fe­sto è la nega­zione pla­teale di tutto quanto l’Expo rap­pre­senta: far nutrire il pia­neta dalle mul­ti­na­zio­nali dell’agrobusiness, degli Ogm, della chi­mica, del petro­lio, dell’industria ali­men­tare e della grande distri­bu­zione; ma anche spreco di suolo, pro­fu­sione di asfalto e cemento, stra­vol­gi­mento dell’assetto urbano, degrado del lavoro, eco­no­mia del debito, cor­ru­zione e, soprat­tutto, una con­ce­zione dello svi­luppo che ha da tempo por­tato il suo focus sull’economia dello spet­ta­colo e della pro­messa: in que­sto caso con una infi­lata senza fine di risto­ranti etnici, accom­pa­gnata da edi­fici costosi e cadu­chi e da una coreo­gra­fia in gran parte virtuale. 

Espe­diente a cui è stato affi­dato il com­pito di far uscire l’Italia dalla crisi, di rilan­ciare la cre­scita, di resti­tuire spi­rito di cit­ta­di­nanza e di appar­te­nenza a una comu­nità fon­data su sfrut­ta­mento e spe­cu­la­zione. 

“Terra Viva” si svi­luppa lungo tutt’altri temi. 

  1. Invece di un’economia lineare, fon­data sull’estrazione di sem­pre nuove risorse da tra­sfor­mare in rifiuti, un’economia cir­co­lare, fon­data sulla Legge del Ritorno: la resti­tu­zione a società e ambiente (che sono un tutt’uno) di ciò che vi è stato pre­le­vato: «La civiltà indu­striale ci ha distolti dal con­si­de­rare un valore la nostra rela­zione con il suolo, in virtù della con­vin­zione arro­gante che più siamo in grado di sot­to­met­tere la natura, mag­giore è il nostro sviluppo».
  2. Invece di un’agrobusiness esten­sivo e mono­col­tu­rale fon­dato su petro­lio e chi­mica, un’agricoltura basata su aziende pic­cole, bio­lo­gi­che, di pros­si­mità, mul­ti­col­tu­rali e mul­ti­fun­zio­nali: «Il secolo scorso è stato domi­nato da un modello uscito dall’industria bel­lica e incen­trato sull’uso di sostanze chi­mi­che e sui com­bu­sti­bili fos­sili. Tale modello ha distrutto il suolo, sra­di­cato gli agri­col­tori, gene­rato malat­tie, creato rifiuti e spre­chi a tutti i livelli, com­preso quello del 30% del cibo».
  3. Invece del potere delle mul­ti­na­zio­nali, una demo­cra­zia par­te­ci­pata, e inclu­siva: «La par­te­ci­pa­zione delle per­sone alle deci­sioni esige un decen­tra­mento del potere e del pro­cesso che lo pro­duce, insieme al raf­for­za­mento dei diritti comunitari».
  4. Invece di mer­ci­fi­ca­zione di tutto l’esistente, coo­pe­ra­zione e con­di­vi­sione: «assi­cu­rare che tutti gli esseri umani siano in grado di par­te­ci­pare a que­sta eco­no­mia vivente come crea­tori, pro­dut­tori e beneficiari».
  5. Invece dei grandi impianti cen­tra­liz­zati, il decen­tra­mento pro­dut­tivo e la riter­ri­to­ria­liz­za­zione dei mer­cati: «Una Nuova Eco­no­mia basata sul suolo è neces­sa­ria­mente locale. Essa pro­muove la pro­du­zione locale e riduce i trasporti».
  6. Invece delle mega­lo­poli, città soste­ni­bili: «L’inclusione della città nell’economia cir­co­lare dipen­derà dalla sua capa­cità di auto­pro­du­zione delle risorse, quelle cul­tu­rali — dalle com­pe­tenze pra­ti­che a quelle lin­gui­sti­che, dalle risorse mor­fo­lo­gi­che alla tutela e alla pro­du­zione dei saperi e così via — e quelle ener­ge­ti­che, agri­cole, demo­gra­fi­che etc.».
  7. Invece della cor­ru­zione sem­pre più com­pe­ne­trata all’economia “legale”, una lega­lità legit­ti­mata da con­senso e coinvolgimento.
  8. Invece della pri­va­tiz­za­zione, i beni comuni: «I con­tra­sti mag­giori del nostro tempo — sul piano intel­let­tuale, mate­riale, eco­lo­gico, eco­no­mico, poli­tico — riguar­dano la mer­ci­fi­ca­zione e la pri­va­tiz­za­zione di risorse di tutti, l’appropriazione pri­vata dei beni comuni. Una risorsa è un bene comune quando esi­stono sistemi sociali che la uti­liz­zano in base a prin­cipi di giu­sti­zia e sostenibilità».
  9. Invece dell’incombente cata­strofe cli­ma­tica, il rias­sor­bi­mento dei gas di serra: «I suoli rap­pre­sen­tano il più grande bacino per l’assorbimento del car­bo­nio e con­tri­bui­scono a miti­gare il cam­bia­mento climatico».
  10. Invece di una con­ce­zione del suolo come mero sup­porto di ogni spe­cu­la­zione, una con­ce­zione dell’unità tra uma­nità e ambiente, tra cul­tura e natura, sin­te­tiz­zata dalla sim­bo­lo­gia della Madre Terra: «Que­sta nuova demo­cra­zia va al di là dell’antropocentrismo. È una demo­cra­zia della vita intera. La nostra esi­stenza dipende dalla rete della vita, e i nostri diritti e le nostre libertà sca­tu­ri­scono dai diritti e dalle libertà della Terra e delle spe­cie non umane». 

Che cosa hanno in comune, allora, due approcci all’agricoltura, all’economia, alla società e alla vita così dia­me­tral­mente opposti? 

L’essere pro­mossi come le due facce dello stesso busi­ness: uno in pompa magna, con grande dispen­dio di mezzi; l’altro come legit­ti­ma­zione sociale del primo, lascian­dolo il più pos­si­bile nell’ombra. 

E che cosa resterà dell’uno e dell’altro, una volta chiusi i can­celli dell’Expo? 

Da un lato un deserto di cemento pieno di edi­fici insen­sati da demo­lire; il biso­gno di fare altri debiti per tro­var­gli una nuova desti­na­zione; il degrado irre­ver­si­bile del lavoro con­so­li­dato nel Jobs act; tante auto­strade vuote costruite su mon­ta­gne di rifiuti tos­sici e una città tra­sfor­mata ancora di più in un in circo. 

Dall’altro, con­ve­gni e incon­tri usati per dare un fugace senso di pro­ta­go­ni­smo pro­prio alle per­sone e alle idee con­tro cui viene gio­cata la grande par­tita dell’Expo. 

Quella mani­fe­sta­zione con il mini­stro Mar­tina ci inse­gna che le parole, da sole, non con­tano niente: cia­scuno può usarle tutte e il loro con­tra­rio per por­tare avanti il pro­prio busi­ness. 

Renzi è mae­stro in que­sto campo. 

Ma “Terra Viva” è il nostro mani­fe­sto, quello in cui pos­sono rico­no­scersi tutti coloro che nel XXI secolo si bat­tono in modo radi­cale per «abo­lire lo stato di cose pre­sente». 

Non è il pro­gramma di una società rurale che reclama un suo posto nell’economia glo­ba­liz­zata, ma il pro­getto di una radi­cale con­ver­sione eco­lo­gica di un intero assetto pro­dut­tivo e sociale e, prima ancora, una cul­tura radi­cal­mente altra. 

Ora deve tro­vare forza e gambe per uscire da quel (costoso) recinto dell’Expo dei popoli, per ripren­dersi strade, piazze, campi, fab­bri­che e uffici.

Ma può con­tare solo su pra­ti­che, sia quo­ti­diane che straor­di­na­rie, capaci di costi­tuire una alter­na­tiva reale sia al discorso main­stream vei­co­lato dall’Expo, sia alla sua tra­du­zione in cemento, asfalto, debito, tan­genti, sfrut­ta­mento e nell’ “eco­no­mia della pro­messa”. 

Que­sto signi­fica con­ti­nuare a svi­lup­pare quelle alter­na­tive sia attuali che di pro­spet­tiva su cui hanno lavo­rato per anni i comi­tati e la rete No-expo e su cui si sono incon­trate e rico­no­sciute le tante realtà diverse che hanno preso parte al cor­teo del 1°maggio. 

Occorre pren­dere atto, e far pren­dere atto, del fatto che con­tro quella mise­ria infi­nita di cui l’Expo è il sim­bolo più vistoso ed esau­stivo si può aggre­gare una plu­ra­lità di ini­zia­tive e di forze ancora assai ete­ro­ge­nee: uno schie­ra­mento poten­zial­mente mag­gio­ri­ta­rio, in barba a quei son­daggi, che, come tutti i media di regime, ci rac­con­tano di una popo­la­zione pla­ne­ta­ria che non desi­dera altro che imme­de­si­marsi con quella sim­bo­lo­gia fasulla. 

È uno schie­ra­mento che ha ancora biso­gno di molte arti­co­la­zioni e media­zioni, ma che ha dimo­strato, nono­stante la tor­sione che i gua­sta­tori del “blocco nero” hanno cer­cato di impri­mer­gli, di avere un pro­pria iden­tità e di poter mar­ciare sulle pro­prie gambe. 

Ora è la volta di ini­zia­tive capaci supe­rare pre­giu­di­ziali e false iden­tità, per por­tare in piena luce la soli­dità di una cul­tura poli­tica radi­cal­mente alter­na­tiva, come quella sin­te­tiz­zata dal mani­fe­sto “Terra Viva”, che dav­vero ci può riag­gre­gare tutti.

 

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